Etico – Sartoria Marchigiana

LA CRISI ETICA DELLA MODA A 9.99 EURO – di JENNIFER GUERRA

Trailer – “True cost”

Il 24 aprile 2013, assieme a Rana Plaza crollò anche il piedistallo su cui si reggeva la fast fashion: una manodopera a basso costo, ai limiti della schiavitù, chiusa in capannoni inadeguati e fatiscenti senza alcun tipo di tutela, intenta a confezionare abiti economici per il mondo occidentale. In meno di 90 secondi morirono 1134 persone, intrappolate nelle macerie di un enorme palazzo dove si producevano a ritmo serrato capi per le catene come H&M e Primark. Il Bangladesh è solo uno dei tanti Paesi in cui vengono assemblati i milioni di abiti e accessori che troviamo ovunque nei negozi. Gli altri sono la Cina, il Vietnam, il Messico, l’Indonesia, la Cambogia e, per quanto riguarda l’Italia, l’Est Europa.

Del disastro di Rana Plaza i media si dimenticarono presto, ma la notizia squarciò un velo che era stato tenuto serrato troppo a lungo. Che per poter vendere una maglietta a soli tre dollari ci fosse sotto qualcosa di marcio, non era di certo un mistero. Ma, si sa, consumismo e razionalità non vanno sempre insieme e l’idea di aver fatto un ottimo affare non porta a chiedersi mai quale sia il reale costo. Con Rana Plaza e le rovine brucianti della fabbrica viste al telegior- nale, forse anche il consumatore più disattento si sarà chiesto se la maglietta appena acquistata al centro commer- ciale fosse stata cucita da una di quelle 1134 persone. Subito dopo il disastro, sembrò esserci un risveglio generale delle coscienze.

Il salario minimo in Bangladesh per i lavoratori del tessile è di 32 centesimi all’ora – e prezzi stracciati per i loro clienti.

Il problema della fast fashion è molto semplice da capire. Troppi capi di bassa qualità e sostenibilità ambientale ed economica vengono prodotti, comprati e buttati ogni anno, e ognuna delle tre azioni è dannosa per qualcuno. La produzione ha delle dinamiche insostenibili per i lavoratori, l’acquisto compulsivo di abiti che non servono fa butta- re un sacco di soldi a noi consumatori e lo smaltimento del tessile è sempre più dannoso per l’ambiente: i capi vengo- no infatti prodotti ormai quasi esclusivamente con fibre sintetiche, che diventano un rifiuto molto inquinante. Quanto andrà avanti questo modello di business prima di sbriciolarsi come i muri della fabbrica di Rana Plaza? Pensare che la crisi di H&M sia l’anticamera della crisi dell’intero sistema della fast fashion è un’idea semplicistica. È vero, i consumatori sono sempre più attenti alle conseguenze etiche delle proprie scelte di consumo e la stessa H&M ne è l’esempio. Uno studio del 2014 condotto tra i propri consumatori ha rilevato che molti di essi cominciavano a preoccuparsi delle ricadute che l’industria tessile aveva sull’ambiente. Il brand svedese ha risposto subito a queste suggestioni attuando politiche di sostenibilità molto attente, come linee prodotte in cotone biologico o la possibilità di recuperare gli abiti dismessi dei clienti, premiandoli con un buono spesa. Per quanto l’azione del colosso sia enco- miabile, il risultato non è però così soddisfacente. Il cotone organico sarebbe ancor meno sostenibile del cotone normale e solo il 5% del tessile raccolto verrebbe effettivamente utilizzato per creare fibre riciclate. I consumatori si ritrovano in tasca un buono da 5 euro da spendere in altri capi prodotti a spese dell’ambiente e dei lavoratori, e rimpolpano le casse di H&M.

Il nostro non è il migliore dei mondi possibili. Ogni anno decine di persone vengono sfruttate, e in certi casi rischiano la vita, per produrre una maglietta da cinque euro che all’ambiente costa quasi 2700 litri d’acqua. Possiamo riflettere su quale sia la nostra parte nello sviluppo sostenibile del pianeta. Possiamo non comprare, o comprare meno. Possia- mo acquistare vestiti di seconda mano, farli durare di più o sviluppare maggiore coscienza nelle nostre scelte.